Dentro la televisione

Il bambino diventerà molto vecchio solo se non si riconoscerà mai . ( L’oracolo di Tiresia )

 Dentro la televisione.

L’immaginario tecnico  – industriale dei media rende apparentemente vana l’indagine sull’essenza delle immagini dal momento che non sembra preoccuparsi della natura di ciò che ci tocca e ci coinvolge se non nella scelta etica, prima ancora che estetica, di voler vivere nella realtà o nella sua immagine.  La profezia waroliana del “minuto di celebrità”, democraticamente ritenuto possibile per ciascun cittadino americano, sembra essersi tramutato in un “minuto d’identità” poiché ora la partecipazione al mondo mediale sembra una imprescindibile conferma definitiva della presenza mondana. La cattura di uno schema somatico all’interno del repertorio delle immagini vere – icone del contemporaneo è la conferma dell’esistenza tramite la sua enfatica manifestazione, l’immagine diffusa e dominante poiché dominata dalla conoscenza inflazionata, dal ri – conoscimento. La televisione ha smesso di essere lo spauracchio d’apocalittici scenari, è diventata il filtro linguistico tra due mondi, il reale e la fiction, con la possibile incursione dell’uno nell’altro e viceversa. Parimenti s’è addensata alle porte degli studi televisivi un’umanità desiderosa di riconoscersi in quell’etereo annullamento che è la trasmissione. Andare in onda significa farsi travolgere dall’onda. Come un surfista il soggetto televisivo che cade (wape out!) sotto la massa d’acqua che anela cavalcare, poi si lascia rotolare così, da personaggio televisivo. Storia personale e flusso catodico si mescolano in un ribollire di pixel, seguendo un andamento ciclico capace di annullare il  biologicamente diverso e ben definito nelle sua separatezza sullo sfondo della vita. Questo flusso non è più uno “spettacolo”, come lo era in origine, non scorre più separato dal mondo ma scorre nel mondo anzi in alcuni casi “è il mondo”. Alessio Carosi ha scovato coloro che hanno avuto a che fare col flusso catodico al momento del tuffo, con la domanda “che cosa hai provato la prima volta che sei stato in televisione”. Sono persone del mondo televisivo o frequentatori eccezionali, partecipanti a concorsi e quiz e professionisti dello schermo ma tutti riportati al momento del passaggio dal mondo “reale” al mondo “realissimo” della TV. La proiezione avviene di fronte al cubo nero in cui Alessio Carosi, immobile performer, guarda da una apertura che, pensate un po’, assomiglia ad uno schermo televisivo.Da dentro la sua Televisione, Carosi guarda le immagini che scorrono al di fuori, guarda anche noi che lo guardiamo a nostra volta e ci chiediamo chi dei due, noi o lui, sia effettivamente nel flusso mediatico. Carosi ha esposto il cubo nel 1999 in una collettiva ed io vidi la scena dell’uomo nel cubo come se stessi assistendo ad un drammatico appello a riflettere sulla smaterializzazione dell’immagine del mondo, una enghio – visione che beffeggia la tele – visione, l’idea – scrissi allora – di vivere qualcosa che accade a distanza è ribaltata ed è la verifica che ciò che accade si svolge in qui ed ora assolutamente ineqiuivocabile. La sua fissità ed il suo linguaggio corporeo innalzava l’ambito angusto di quella scultura minimale a simbolo di una esistenza passata davanti al video, a campione di un’umanità che si è dimenticata di guardare dentro o attraverso e che preferisce guardare verso. La direzione è quella di un modello rassicurante e familiare, un classico da cui non distogliere gli occhi e la mente, un argomento paradigmatico su cui poggiare l’intera esistenza di una giornata. Riverberi di vita e rinnovata partecipazione ad un gruppo allargato sono i dati oggettivamente riscontrabili nella formulazione del palinsesto così come è altrettanto evidente la moltiplicazione del traguardo televisivo nella teleologia contemporanea. La televisione di Carosi è presa all’ingresso, all’esordio, testimoniata da una compatta coesistenza di domanda e registrazione della risposta in un immagine che è commento e fotografia istantanea al tempo stesso. Senza scampo, il soggetto intervistato è catturato nuovamente dalla macchina da presa per parlare, questa volta, della televisione non “alla” televisione. Va a definire quella distanza necessaria ad oggettivare l’operazione artistica che necessita dell’isolamento dal rumore di fondo del quotidiano. Sebbene straordinario, il racconto degli intervistati entra in una sorte di casellario delle opinioni scandito dagli stacchi della figura dell’uomo nel cubo, ciò per sottolineare la condizione spaziale che la performance rende attiva e che l’installazione, una volta che il cubo rimane disabitato, rende emblematica. Il fronteggiarsi dell’osservatore campione, a sua volta osservato, è un gioco di specchi. Il senso dello stare dentro la scatola è quello di riconoscersi  unità vedente che si pone in un ambito artificialmente separato dal mondo, dentro uno strumento ottico semplice ma esemplare che “fa il verso” alla televisione. Ironicamente Carosi si comporta come un bambino che costruisce il suo schermo dal quale, come da un teatrino, si affaccia per imitare quelli che “stanno in televisione”. Tutto ciò si carica di un significato dal momento che si stabilisce un muto dialogo tra la televisione posticcia di Carosi e quella reale ma invisibile di cui parlano le persone intervistate, come a determinare due momenti immaginari: uno simulato, l’altro narrato. Tra parola e simulazione dell’arte si inserisce il pubblico che sta in una posizione mediana tra il volto riconosciuto tra le persone che ha potuto vedere nell’omologante e familiare televisore di casa e l’inquietante statica presenza del cubo e del suo abitante, nella straordinaria posizione di permanente distrazione dal flusso elettronico amico verso una perturbante connessione con il reale.  Già Mario Schifano, alla fine degli anni Sessanta, si confronta con le immagini della televisione sulle quali interviene quasi ad accelerarne il portato emotivo fino ad una congiunzione con il demone personale e personalizzante dell’artista che guarda e modifica un messaggio comune. Fino ad arrivare a Christian Jankowski che alla Biennale di Venezia del 1999 ha trasmesso i suoi dialoghi con le tele – cartomanti. Finzione e realtà si innestano a formare un unico edificio del contemporaneo che non sfrutta una loro sostanziale opposizione ma, al contrario, una comune matrice ideologica che abolisce le differenze, sia l’una, sia l’altra hanno, infatti, lo scopo di comunicare la propria presenza tramite la diffusione più ampia possibile e, soprattutto, in quella zona di consenso che solo la televisione può garantire. L’elettrodomestico TV è diventato non più il mostro della falsa coscienza ma il mostro, cioè, latinamente, la “meraviglia” dell’unica coscienza possibile quindi reale. Non sto qui a farvi i soliti esempi del tipo “la guerra in diretta”, ma è sicuro che dall’esperienza medializzata ci si aspetta un’immagine cosmetica e de – naturalizzata del mondo e si è soddisfatti quando la si ottiene. Contemporaneamente, situazioni di crescita all’interno del pensiero antagonista hanno portato ad individuare canali paralleli di utilizzo delle nuove tecnologie, un esempio è la nascita di televisioni satellitari low – budget come Global TV e Indymendia che si pongono in competizione e non in sterile antagonismo con la programmazione ufficiale, ciò a dire che la televisione non ha un senso unicamente pervasivo e massificante, ma anche informativo e deviante dalla locuzione comune. L’installazione e l’azione di Carosi spero che aprano nella realtà artistica romana un filone di impegno e contenuti debolmente scaduto in facili edonismi e ripetitive narrazioni. L’immagine dell’uomo nel cubo, dell’artista in vetrina, in televisione, per l’appunto è un richiamo all’esperienza della fruizione della parte più viva dell’arte un invito ad esserci e non risparmiarsi gli incontri.

Tra accidentalità e programmazione.

Carosi ha avvertito sin dall’inizio l’importanza del fattore accidentale, variante imprevista di una condizione delineata in partenza e progettata per uno sviluppo eventuale. L’opera è, quindi, una connessione perfetta tra una oggettività manualmente elaborata ed una soggettività coincidente, a volte deviante dal messaggio avviato nella prima fase, comunque coerente al corpus dell’opera conclusa; mi spiego: alla mostra Grow Up, il giovane Carosi presenta una macchina che ruota intorno al soggetto al fine di produrre un’immagine di esso a trecentosessanta gradi. La macchina, costruita interamente dall’artista, costituisce la parte preordinata dell’opera, quella “cosa” pronta a ricevere l’accidentalità della realtà che va a catturare. Questa collisione con il reale è evidente anche nella mostra Assenza e Desiderio alla Sala Almadiani di Viterbo. Diretto precedente del lavoro che presentiamo qui al Salon Privé Arti Visive, il Carosi nel cubo del 1999 guarda ed è guardato a sua volta, fermo testimone di una realtà che scorre si integra lui stesso nell’opera, è visto come corpo unico dello spazio plastico visivo è un pezzo dell’opera; ma come componente umana egli vede e carpisce le varianti di quel teatro umano che gi scorre innanzi, oltre lo schermo. Più sottile è invece il lavoro presentato a Obliterazioni . Un castello di “carte”, costituito da otto scuri per finestra bianchi, è segnato di nero, Cos’è questa? È forse una semplice metafora dell’equilibrio precario o è qualcos’altro? Certamente, è altro! Se l’osservatore si sposta e raggiunge un particolare punto di vista vede comporsi sulle superfici articolate la figura di una ragazza di schiena che s’affaccia alla finestra, un corpo umano che guarda (pensate un po’) attraverso il varco a cui, forse, sono stati sottratti proprio quegli scuri. Lo spostamento dell’osservatore fa che la visione non venga imposta ma “accada” quasi accidentalmente e venga scoperta quale inizio di un percorso interpretativo. Carosi ha giocato su l’icona pop della modella da rotocalco per rendere più accattivante l’edificio precario del linguaggio dell’arte e così ha fatto anche alla mostra Post Arte Arte presentando una porta a vetri dipinti con l’immagine dello Zio Sam che indica il suo I Want You. È appena passato l’Undici settembre e il mondo s’appresta a dividersi aspettando la reazione americana che si sarebbe concretizzata con la guerra in Afganistan; l’icona della chiamata alle armi campeggia nera sul vetro di una porta bianca messa a bandiera in una Sala di Palazzo Calabresi a Viterbo quasi a invitare lo spettatore a porsi da una parte o dall’altra di quello spazio così ripartito. In verità sia dall’una, sia dall’altra parte vediamo in trasparenza il mondo e la figura dipinta ci appare una fantasmatica silouette, ma è presente e sebbene sospesa nella fragilità del vetro, incombe con la domanda “tu da che parte stai?”. Anche qui l’osservatore è chiamato a ri – comporre l’opera anzi, a dire il vero, è lui a completarla dalla sua posizione. Con Dolce Vita , infine, ci troviamo di fronte ad una divertente rielaborazione dadaista del celebre film di Federico Fellini, Carosi trasmette il suo video Dolce Vita che consiste nella  ripresa di una cascata di miele gocciolante su quattro fette biscottate che scrive la parola “vita”. Il suono assordante dello scroscio del liquido evoca una fontana: è la scena famosissima della Fontana di Trevi a occupare lo spazio di fronte il video con un’attrice vestita esattamente come Anita Ekber che invita il pubblico a ballare con lei. Da questo lavoro “intermedia” Carosi ha elaborato lo spostamento dall’immagine video alla performance in un pendolo concettuale che va dalla realtà simulata a quella organizzata nell’azione e nelle cose, due spazi praticati dallo sguardo e considerati nella fragranza della loro compartecipazione e compenetrazione emotiva.